Nuovo profilo psicopatologico nella schizofrenia
GIOVANNA REZZONI
NOTE
E NOTIZIE - Anno XV – 17 marzo 2018.
Testi pubblicati sul sito
www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind
& Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a
fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta
settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in
corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di
studio dei soci componenti lo staff
dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
Nel cammino di questo lungo
periodo di transizione da una psichiatria fondata su teorie della personalità
ad una pratica clinica che sintetizzi tutte le nuove acquisizioni in un quadro
coerente ed operativamente utile per migliorare gli interventi clinici, sono
andati perduti importanti riferimenti per lo studio del paziente psicotico nella
sua realtà specifica e fuori dagli stereotipi nosografici, utili solo per un
primo inquadramento. Il miglioramento delle prestazioni cognitive dei pazienti
schizofrenici per effetto dei trattamenti e l’abbandono delle nozioni del
passato, che riportavano l’involuzione delle abilità intellettive a teorie
superate sull’eziopatogenesi (regressione
teleologica) o rappresentavano in maniera impropria l’alterazione psichica
nel suo complesso (es.: coscienza rovesciata come un “dito di guanto”), portano
spesso a trascurare questi aspetti della vita psichica, che invece possono
informare su importanti caratteri del disturbo e fornire indicazione sulla fase
della malattia.
Non deve meravigliare il
lettore non specialista, che si parli di “caratteri del disturbo da indagare”,
perché l’eterogeneità è notevole, e se si accetta la tesi sostenuta da decenni
dal nostro presidente, ossia che la diagnosi di schizofrenia comprende disturbi
diversi per eziologia accomunati dagli stessi sintomi principali, si comprende
la necessità di conoscere a fondo ciascun paziente, non escludendo alcun tipo
di indagine, da quella genetica e di neuroimmagine a quella intrapsichica e
comportamentale.
Si diceva, poi, della fase della malattia, perché un altro
aspetto di difficile valutazione è la gravità, soprattutto se non la si
rapporta con precisione a dei parametri utilizzati in clinica e validati
dall’esperienza sui grandi numeri degli studi epidemiologico-statistici. In
passato, ritenendo che le forme della schizofrenia fossero entità discrete,
assimilabili a classi intrinsecamente omogenee e fra loro indipendenti, si
disponeva di un primo criterio di massima per giudicare la gravità: le forme ebefrenica e paranoide, in cui la compromissione psichica generale, allora
definita regressione, è maggiore di
quella della forma simplex, si
tendeva a considerarle più gravi[1]. La
stima della gravità attuale includeva criteri per valutare il grado di acuzie e
l’entità delle manifestazioni cliniche principali. Richiederebbe troppo spazio
elencare ed illustrare le ragioni che hanno portato all’abbandono di questo
paradigma, ma ciò che importa sottolineare è che, accanto a criteri già a lungo
discussi, criticati ed oggi del tutto superati, un tempo si adottava un
atteggiamento saggio che val la pena conservare: lo studio costante dell’evoluzione
attraverso un rapporto personale e frequente col paziente nel tempo. A tal
proposito, il nostro presidente, riprendendo un’analogia di Franco Rinaldi, che
fu presidente della Società Italiana di Psichiatria, suole dire che se la
diagnosi medica è fotografica, quella psichiatrica è cinematografica.
Questo approccio, fin dagli
anni Ottanta, aveva portato alcuni psichiatri, come Bruno Giuliani, a sostenere
la necessità di accantonare le categorie allora in uso per i pazienti
psicotici, cercando di analizzare lo stato psichico in rapporto a semplici
parametri oggettivi di realtà, e cercando di desumere informazioni utili a
ipotizzare una prognosi. Su questa traccia, Giuseppe Perrella indagava la
coscienza di malattia, anche nei casi ritenuti privi di questo grado di
consapevolezza secondo i criteri del tempo, e non mancava di rilevare elementi
di sorpresa per i colleghi anziani.
Oltre trent’anni fa, prendendo
le mosse da questi principi, si era cercato di sviluppare un metodo da
affiancare a quello della diagnostica convenzionale strettamente finalizzata
alla decisione farmacoterapeutica[2].
Ora, Ania
Justo e colleghi hanno studiato 120 pazienti
schizofrenici spagnoli, valutandone la coscienza di malattia, l’autostima e
numerosi altri parametri che hanno messo in relazione con la sintomatologia
dissociativa. L’approccio, simile a quello appena ricordato di scuola italiana,
ma sempre mediato da valutazioni formali standardizzate, ha delineato un nuovo profilo psicopatologico in un
sottogruppo del campione.
(Justo A., et al., Schizophrenia
and dissociation: Its relation with severity, self-esteem and awareness of
illness. Schizophrenia Research – Epub
ahead of print doi: 10.1016/j.schres.2018.02.029, Mar 7, 2018).
La provenienza
degli autori è la seguente: Department of Psychiatry and Psychology of the
Polyclinic Assistens, Vigo (Spagna);
Department of Psychology, University of Coruna (Spagna);
Touro College, Berlin (Germania); University Hospital
Complex, Coruna (Spagna).
Ania Justo, Alicia Risso, Andrew Moskowitz e Anabel Gonzalez descrivono nell’articolo, che anticipa online la pubblicazione su Schizophrenia Research, le conclusioni di un’osservazione diagnostica protratta di 120 pazienti psicotici spagnoli. Il principale risultato consiste nella definizione di un nuovo profilo psicopatologico nell’ambito della diagnosi di schizofrenia, che interessava un sottogruppo del campione, corrispondente al 36,7% del totale.
I pazienti sono stati studiati mediante l’impiego di vari questionari specifici per l’accertamento di 1) dati socio-demografici; 2) eventi traumatici; 3) indice di severità (sia clinico che psicopatologico); 4) autostima; 5) coscienza di malattia.
Sulla base dei punteggi ottenuti mediante una scala per la valutazione di esperienze dissociative, i pazienti sono stati classificati in due gruppi: a) HD, ossia pazienti con un alto grado di manifestazioni legate ad esperienze dissociative (High Dissociative symptomatology); b) LD, cioè pazienti con un basso grado di segni e sintomi riportabili a dissociazione (Low Dissociative symptomatology).
Del gruppo HD facevano parte 44 pazienti del campione. I due gruppi, HD e LD, presentavano differenze significative riguardo ai livelli di sintomatologia dissociativa, alle manifestazioni psicopatologiche in generale e ai livelli di eventi traumatici sofferti. La percentuale dei pazienti con basso grado di autostima era più elevata nel gruppo HD che in quello LD (M = 25.52 front 28.76 of group LD; t(118) = 2.94, p = .00). Inoltre, il gruppo HD presentava nei suoi membri una maggiore coscienza della propria malattia mentale, maggiore consapevolezza degli effetti benefici del trattamento farmacologico e delle conseguenze sociali del proprio disturbo: F(1) = 10.929, p = .00; η2pt = 0.083; 1-β = 0.907.
I risultati chiaramente dimostrano l’esistenza di un sottogruppo di pazienti con più alti livelli di dissociazione e trauma, che erano associati ad un grado maggiore di manifestazioni sintomatologiche, ad una minore autostima e ad una maggiore coscienza del proprio disturbo mentale. Tale insieme costituisce una popolazione con una maggiore gravità, nonostante la maggiore consapevolezza, per la quale sarebbe opportuno porre in atto trattamenti coadiuvanti specificamente orientati verso queste variabili. Infine, gli autori dello studio sostengono che la definizione di questo nuovo profilo psicopatologico nell’ambito della schizofrenia apra una nuova possibilità terapeutica per i pazienti con schizofrenia refrattaria ai trattamenti.
L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e
invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E
NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
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[1] Un caso a parte era considerata la forma catatonica.
[2] Dubbi e critiche venivano sollevati da parte di quanti credevano che il nuovo approccio volesse sostituire quello che portava alla diagnosi nosografica convenzionale; ogni perplessità e contrarietà scompariva, quando si spiegava loro che questa procedura era adottata parallelamente e poi in prosieguo della metodologia psichiatrica tradizionale. I pazienti ricoverati erano osservati più volte nel corso della giornata e gli incontri non avevano una rigida cornice temporale. All’approvazione da parte degli psichiatri di vari istituti universitari italiani non fece seguito una messa in pratica sistematica, per l’eccessivo impegno che questo approccio comportava.